Influenza Spagnola. Il ruolo dell’Omeopatia nella gestione della pandemia

Pubblicato il 21/10/2021

Categorie: Storia dell'Omeopatia

Autori: Francesco Eugenio Negro, Francesco Marino

Fonte: Il Medico Omeopata - Rivista

Influenza Spagnola. Il ruolo dell’Omeopatia nella gestione della pandemia

Le sindromi influenzali sono accidenti stagionali, prodotte dai virus parainfluenzali (se ne contano almeno 200), che scandiscono, oramai da decenni, i nostri ritmi invernali. Pur essendo altamente contagiose, in genere, non danno luogo a manifestazioni particolarmente pericolose se non nei soggetti a rischio. Queste sindromi vanno tuttavia nettamente differenziate dall’influenza propriamente detta, dovuta principalmente a Orthomixovirus A e B. Estremamente contagiosa, per via della sua facilità di ricombinazione genetica, l’influenza ha dato vita a ripetute ondate di tipo epidemico, a carico della specie umana come pure di quella aviaria e suina, soprattutto nel corso dell’ultimo secolo. Un esempio su tutti: la pandemia del 1918-19, universalmente ritenuta “la madre di tutte le pandemie”.

Grazie alle moderne tecniche di mappaggio genetico è stato possibile dimostrare come (ad eccezione dei ceppi H5N1 e H7N7, responsabili della forma “aviaria”) quasi tutte le pandemie influenzali tipo A (H2N2, H3N2), che da allora si sono manifestate, fossero dirette “discendenti” del virus H1N11 che imperversò nel corso della Grande Guerra: questo ceppo, infatti, può andare incontro ad una serie di mutazioni genetiche responsabili del cosiddetto “salto di specie” che ne amplifica di gran lunga la pericolosità.

Attualmente si annoverano 2 tipi di ceppi influenzali (H1N1, H3N2), presenti sia nell’uomo che nei suini: i ceppi responsabili dell’influenza suina difficilmente infettano l’uomo mentre quelli “umani” presentano indici di mortalità decisamente inferiori a quelli del 1918. A tutt’oggi, però, non si è ancora riusciti a comprendere l’eccezionale gravità di quella pandemia, soprattutto se confrontata con quelle precedenti del 1847-1889 e con quelle successive del XX secolo: infatti gli indici di mortalità delle epidemie influenzali si aggirano mediamente attorno allo 0,1% mentre quelli del 1918 superarono il 2,5% (2)!

Secondo recenti studi siero-epidemiologici, il ceppo H1N1, dopo il 1918, continuò a circolare in forma ricombinata sia tra i suini che tra gli umani (“genetic drifts”), almeno fino al 1950, dando luogo alle annuali epidemie. Nel 1957 però sarebbe stato “soppiantato” dal ceppo H2N2 (“asiatica”) per poi “riemergere” nel 1976, non si sa come, da un congelatore di laboratorio (3) … Nel 1995 un team scientifico, che riuscì a ricostruire l’intero genoma del ceppo “maledetto” (4), confermò che i suddetti ceppi derivavano direttamente dal ceppo del 1918 ma non trovarono alcuna correlazione, in termini di mutazione, tra le epidemie umane/animali ed il genoma del 1918 (5).

Perché, dunque, quella pandemia fu così letale? Perché colpì in particolare i giovani maschi sani e le donne in gravidanza, ovvero i soggetti apparentemente in migliori condizioni di salute e reattività? Come mai si verificarono quelle 3 ondate, in rapida successione, in un arco di tempo così breve (9-12 mesi) e per giunta simultaneamente in tutto il mondo? Infine, perché scomparve con la stessa rapidità con cui si affacciò? A queste domande gli studiosi non hanno ancora trovato risposte esaurienti…

INQUADRAMENTO STORICO EPIDEMIOLOGICO

La pandemia del 1918 (“spagnola”) colpì, secondo le stime più recenti, circa mezzo miliardo di persone in tutto il mondo (6), dall’Alaska alle Isole Samoa, uccidendone da 50 fino a 100 milioni (7, 8, 9, 10): solo in Italia perirono da 300.000 fino a 675.000 persone (11). Questa pandemia determinò una drastica riduzione della “life expectancy” agli inizi del XX secolo: da 51 a 39 anni … (12). Non a caso fu denominata “la grande peste bianca”, per analogia con la “peste nera” del 1348, che provocò la morte di almeno un terzo dell’intera popolazione europea. Fu un evento che colse tutti di sorpresa: medici, militari, governi non sapevano di cosa si trattasse e come gestirla anche perché presentava caratteristiche alquanto diverse rispetto alle “comuni” forme influenzali. A differenza di queste ultime, come già ribadito, la pandemia non colpiva l’età infanto-giovanile, soggetti anziani e/o immunodeficienti, ma sembrava privilegiare giovani maschi adulti sani tra i 20 ed i 40 anni e donne incinte. Inoltre la forma più letale non si manifestò nei freddi mesi invernali bensì nel caldo-umido della tarda estate-inizio autunno 1918. Non se ne conosceva né la natura né l’etiopatogenesi: si dovette attendere il 1933, allorquando un team britannico formato dagli scienziati Wilson Smith, Christopher H. Andrewes e P.P Laidlow riuscì ad isolare il virus (13).

All’epoca i virus rappresentavano ancora un grande mistero mentre i microbi non avevano più segreti: con la scoperta degli agenti patogeni esogeni la biomedicina aveva incorniciato il suo trionfo, relegando nel dimenticatoio le intuizioni dell’ultimo Pasteur (”il batterio esiste, ma il terreno è tutto”) che invece aveva rimesso in gioco la risposta individuale alla malattia. Un concetto, questo, che sarebbe stato confermato dalla c.d “discontinuità biologica”, ovvero la labilità dell’agente esterno di modificare le sue priorità e quindi il suo potere patogeno (14). Ipotesi, peraltro, confermata da uno studio del 2006 (15): i virus mutanti, cioè, si comporterebbero diversamente in presenza di una popolazione altamente suscettibile, a conferma di quanto il mondo omeopatico sostiene da sempre, ovvero l’importanza del “terreno”.

Date le carenze di strutture sanitarie dell’epoca, si era abituati, in periodo bellico, ad epidemie di tifo petecchiale, febbre tifoide,colera, peste che complicavano il già difficile coordinamento sanitario, aumentando la difficoltà di diagnosi e terapie. Di certo, però, non era prevedibile un tale disastro come fu la pandemia del 1918. Milioni furono gli uomini mobilitati dalla guerra ed altrettanto grande fu il numero dei profughi, che cercavano di sfuggirla, e dei tanti medici inviati al fronte, a detrimento dei pochi che restavano per prestare aiuto ai civili.

Allo scopo di non terrorizzare la popolazione i Paesi belligeranti imposero una severa censura militare, che impediva a chiunque (medici in primis, compresi gli omeopati) di diffondere dati ed informazioni sulla pandemia. Faceva eccezione la Spagna, che all’epoca era l’unico Paese neutrale: questa è la ragione per cui quella pandemia fu chiamata “spagnola” e per tutti ne divenne la culla. Non a caso, di tutti gli omeopati europei, solo gli spagnoli poterono pubblicare le loro esperienze, come vedremo più avanti.

IPOTESI SU SITI E MODALITÀ D’INSORGENZA

In base ai dati oggi disponibili, la spagnola si diffuse in 3 ondate:

  • una prima (marzo 1918), di tipo lieve, come una comune forma influenzale (”febbre dei 3 giorni”)
  • una seconda (agosto-novembre 1918), assolutamente letale, soprattutto tra i militari coinvolti nel conflitto (mutazione letale)
  • una terza (gennaio-aprile 1919), relativamente meno grave, portata dai soldati di ritorno a casa, con conseguente diffusione presso i civili (mutazione meno letale? Esaurimento della carica patogena?)

Difficile, tuttavia, stabilire l’epicentro e le modalità di diffusione. Queste le ipotesi più accreditate:

  • pista cinese: secondo Hannoun (Ist. Pasteur), nel novembre 1917 in Cina si sarebbe sviluppato un primo focolaio che sarebbe stato veicolato da un contingente di 96.000 lavoratori cinesi, portati dagli eserciti britannico e francese nelle retrovie del fronte, passando per gli USA, con diffusione iniziale a Boston e quindi in Francia (Brest), ove avrebbero contagiato i soldati (16, 17). Questa ipotesi, tuttavia, sarebbe stata smentita da un recente studio pubblicato nel 2016 sul Journal of the Chinese Medical Association (18)
  • pista americana (la più accreditata): secondo lo storico Alfred W. Crosby 19, dopo l’ingresso degli USA in guerra (aprile 1917), si ebbero le prime segnalazioni in Kansas (gennaio-marzo 1918), nei campi di addestramento di Camp Funston (oggi Fort Riley) e Haskell County, a carico di reclute giovani e sane, in procinto di partire per l’Europa. In questi campi venivano allevati polli e maiali per alimentare le reclute: è probabile che il virus, annidato in queste specie, avesse subito una mutazione (“genetic drift and shift”) e compiuto il “salto di specie”. Questi stessi soldati furono inoltre preventivamente sottoposti ad un pesante programma vaccinale, divenuto obbligatorio nell’esercito americano, dopo la guerra di Cuba (1911). Nel giro di una settimana 522 soldati si ammalarono20. Tuttavia la prima ondata passò quasi inosservata ma la seconda (Agosto-settembre 1918) si rivelò drammatica e dilagò rapidamente e contemporaneamente non solo in tutto il Paese ma anche in Francia (Etaplès, Brest: dove le truppe venivano sbarcate), in Sierra Leone (Freetown) ed in Irlanda, portata dai soldati di ritorno a casa, con conseguente diffusione presso i civili
  • pista austriaca: secondo Andrew Price-Smith la spagnola sarebbe sorta nella primavera del 1917, in base ai dati forniti dagli archivi militari (21).

A prescindere dall’origine, nel novembre 1918 la pandemia arrivò dalla Francia sulla costa settentrionale spagnola (San Sebastian), dove furono segnalati casi estremamente contagiosi che rapidamente si diffusero in tutto il paese. A Madrid venne colpito un terzo della popolazione, tra cui Re Alfonso XIII, in forma grave. Fu allora che la stampa spagnola cominciò ad interessarsi del fenomeno e a darne notizia (22). Come spesso avviene, quella strana pandemia fu classificata in modo diverso da ogni Paese, indicando la nazione con la quale non vi erano buoni rapporti. Ad es., fu chiamata , “febbre di Parma” in Francia, “febbre delle Fiandre” in Inghilterra,”malattia bolscevica” in Polonia, "febbre di Bombay” a Ceylon, "febbre di Singapore” a Penang. In Spagna fu denominata “febbre del soldato napoletano”. Alla fine, però, tutti si accordarono sul termine “spagnola”, come già accennato, con buona pace dei poveri spagnoli.

SINTOMATOLOGIA. INDICI DI MORBILITÀ E MORTALITÀ

Come su riportato, la sintomatologia iniziale della prima ondata era abbastanza comune (febbre, mialgie, vomito, tosse etc.) e relativamente contenuta: anche per questo fu probabilmente sottovalutata dalle autorità sanitarie e militari. Quando sopraggiunse la seconda ondata, iniziarono le complicanze quali astenia e dispnea ingravescente, violenta cefalea, artralgie,brividi squassanti, delirio con allucinazioni, precordialgia, tachiaritmia, sepsi polmonare, emoftoe, emorragie cutaneo-mucose, otorragia, cianosi fino ad arrivare alla sincope ed alla morte immediata. Spesso l’evoluzione era talmente rapida da notare come una persona, perfettamente sana al mattino, finisse col decedere entro le 24 h (23).

Secondo recenti stime, la spagnola avrebbe ucciso più persone in 2 settimane che l’AIDS in 24 anni 24: in effetti fu “il più grande olocausto medico della storia”, anche peggiore della “peste nera” 25 che pure imperversò per un secolo. Nessun angolo del globo fu risparmiato, come si può evincere dalla tabella sottostante (26):

Il target preferito dalla pandemia era costituito dai giovani maschi adulti e dalle donne in gravidanza, un dato che gli studiosi avrebbero attribuito alla c.d. “tempesta citochinica” (27), ovvero ad un deragliamento iperacuto del sistema immunitario: un dato molto strano, se si considera che la “comune” influenza provoca la morte nello 0,1% dei casi contro il 20% dei soggetti colpiti dalla spagnola (28). Tra le donne incinte la mortalità si aggirava tra il 23% ed il 71% (29). Al contrario, la popolazione anziana oltre i 65 anni (che aveva contratto l’influenza russa del 1889-90) e coloro che si erano ammalati durante la prima ondata furono relativamente risparmiati in quanto “Immunizzati”.

FATTORI FAVORENTI E PREDISPONENTI

Non è possibile comprendere l’importanza della pandemia se non la si inserisce nel suo contesto storico ed ambientale. Se infatti il virus H1N1 fu il fattore scatenante, non va assolutamente sottovalutato il ruolo dei fattori predisponenti, quali il clima di guerra (malnutrizione, sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie scadenti, caldo-umido estivo), i trasporti civili, commerciali e militari di massa in tutto il globo, il rientro in patria dei militari affetti che esaltarono il ruolo giocato dalla probabile mutazione genetica. La durata della pandemia va inoltre rapportata anche alla durata della guerra che, almeno inizialmente, si pensava sarebbe durata un anno al massimo mentre si protrasse per quasi 5 anni.

Anche se le potenza vincitrici non lo hanno mai ammesso, un ruolo non secondario potrebbe essere stato svolto anche dalle vaccinazioni di massa, imposte dai comandi militari. Dopo la guerra di Cuba (1911), infatti, il governo americano le aveva rese obbligatorie. Pertanto le truppe in partenza per l’Europa ricevettero “preventivamente” da 14 a 25 dosi per tifo/paratifo, febbre gialla, etc. (30). A seguito di queste vaccinazioni, sia il Ministro della Guerra (Henry L. Stimson), che il Capo della Sanità Militare (Charles V. Chapin) riconobbero, obtorto collo, che nell’esercito americano si era verificata, come mai prima di allora, una “strana” impennata di casi di sindromi tifoidee, oltre a decine di morti, almeno 20.000 ricoveri negli ospedali militari USA e quasi 30.000 casi di epatite in soli 6 mesi di guerra 31. A tutti questi dati, benchè ufficialmente pubblicati, non venne dato particolare risalto, neppure dalla stampa, stranamente … Tuttavia la cosa preoccupò non poco i vertici governativi e militari, al punto che vollero tentare, a guerra finita, un esperimento che aveva dell’incredibile: nel 1918 l’esercito USA impose il vaccino antivaiolo a 3.285.376 nativi nelle Filippine, in assenza di epidemia, fedeli al motto “meglio un vaccino senza epidemia che un’epidemia senza vaccini”. 47.369 filippini svilupparono il vaiolo e di questi ben 16.477 ne morirono. L’anno successivo decisero di ripetere l’operazione su quasi 8 milioni di persone: oltre 65.000 si ammalarono e 45.000 morirono (32).

Dopo il 1918-19 il ceppo della spagnola H1N1 sembrò scomparire, con la stessa rapidità con cui era apparso. Tutti si chiesero che fine avesse fatto e se si sarebbe mai riaffacciato. Da allora ricomparve solo un’altra volta nel 1976, su segnalazione dei CDC di Atlanta, ancora una volta presso un campo militare: Fort Dix (New Jersey) (33). In quella circostanza, le autorità sanitarie americane convinsero l’allora Presidente Gerald Ford a lanciare una campagna di vaccinazione di massa. Tuttavia l’operazione si rivelò un terribile flop, a causa delle diverse e migliori condizioni igienico-sanitarie; gli enormi costi sostenuti e la pessima pubblicità costarono a Ford la rielezione nel 1977.

CONSEGUENZE

La spagnola debellò, oltre alla generazione di età compresa tra i 20 ed i 40 anni, intere comunità. Basti pensare ai nativi americani (3.293 morti 34) e ad alcune isole del Pacifico, come Tonga (8% della popolazione), Nauru (16%) e Fiji (5%) 35. L’economia globale ne uscì complessivamente sconvolta, in particolare l’industria civile e dello spettacolo. Le città si svuotarono mentre le agenzie di pompe funebri lavoravano a pieno ritmo. Le uniche a trarre i maggiori profitti furono soprattutto le industrie farmaceutiche. Proprio in quegli anni scadeva il brevetto della Bayer per l’aspirina. Pertanto, diverse aziende si dettero da fare per produrne quantità in larga scala, alla luce delle raccomandazioni fornite dal Ministro della Sanità Militare USA e della rivista JAMA, che consigliavano megadosi di aspirina: da 8 fino a 31 gr/die (36)!

All’epoca non si conoscevano né il meccanismo d’azione né i rischi legati all’uso (inappropriato) dell’aspirina per cui a posteriori si parlò di “aspirin poisoning” (37). La sua azione soppressiva, infatti, avrebbe determinato gravi emorragie e pneumopatie in soggetti già defedati. Tutto ciò si verificò soprattutto in occasione della seconda ondata, quella più letale, creando dunque i presupposti per la c.d. “tempesta perfetta”. La spagnola influì massicciamente anche sul corso stesso della guerra. In Europa tutti i paesi dell’Intesa e degli Imperi centrali furono coinvolti. Questi ultimi subirono i danni peggiori perché persero almeno 2 milioni di uomini (il triplo rispetto alle FF.AA. italiane) (38), proprio quando il conflitto sembrava volgere a loro favore. Fino al 1917, infatti, vigeva un equilibrio instabile tra i contendenti, tale da richiedere l’intervento americano. Lo scoppio della rivoluzione in Russia provocò lo spostamento delle truppe austro-germaniche sul fronte occidentale (Fiandre) e meridionale (Caporetto).

Tuttavia, l’embargo navale prodotto dagli Alleati impedì agli Imperi Centrali i rifornimenti necessari per alimentare e curare le proprie truppe che, oltre ai danni della spagnola, si ritrovarono gravemente malnutrite e prive di medicinali. Erich Von Ludendorff, comandante supremo dell’esercito imperiale tedesco, non potè quindi lanciare l’offensiva nelle Fiandre. Secondo vari studiosi di storia militare, la mancanza di soldati in piena efficienza contribuì in modo determinante alla sconfitta finale (39) mentre la storiografia italiana non ha mai approfondito questo aspetto.

PROFILASSI E TERAPIA: IL TRATTAMENTO ALLOPATICO CONVENZIONALE

In mancanza di dati chiari sulla natura della pandemia, le misure adottate dalle autorità sanitarie e militari furono semplicemente sintomatiche ed empiriche. Si consigliava genericamente di far arieggiare gli ambienti, evitare luoghi affollati (teatri, cinema e scuole vennero chiusi), restare a letto, idratare con liquidi caldi, porre impacchi freddi sul capo (40), portare mascherine protettive di garza, etc.

I farmaci usati erano: l’aspirina, l’adrenalina (per la polmonite secondaria), l’ossigeno per via sottocutanea (41), i Sali di chinino, la digitale, soluzioni isotoniche di glucosio e bicarbonato di sodio per via endovenosa e persino la cannella (42). I medici consigliavano ai soldati di spruzzarsi in gola antisettici e alcool e di masticare tabacco per abbassare la temperatura. Tentarono anche di inoculare “vaccini” a base di secrezioni corporee (sangue e muco) o di batteri ritenuti responsabili, filtrati per eliminare le cellule più grandi ed i detriti” (43), come riportato da Alfred W. Crosby (op. cit.). Tutte queste misure si rivelarono del tutto inutili se non dannose: i vaccinati finirono inevitabilmente per ammalarsi e morire come mosche, a differenza dei non vaccinati.  La mortalità era altissima, almeno il 40% (44).

IL RUOLO E L’ESPERIENZA DEGLI OMEOPATI

Al contrario dei loro colleghi allopatici, i medici omeopati ottennero un grande successo nel trattamento della pandemia influenzale, anche se i loro meriti furono ignorati o sottovalutati, proprio come accadde in occasione delle epidemie di colera che imperversarono per tutto il XIX secolo. Il dato interessante che emerse dalle loro esperienze fu la straordinaria concordanza sia nell’impiego dei medicinali che nelle statistiche riferite e pubblicate nelle riviste dell’epoca: la mortalità, infatti, era solo del 2,1-5%. Purtroppo la pesante censura militare, come si è già detto, non permise ai medici omeopati dei Paesi europei coinvolti nel conflitto, di diffondere e pubblicare dati sulla spagnola. Questa è la ragione principale per cui non abbiamo notizie significative riguardanti l’Italia e gli altri Paesi belligeranti. In quegli anni le principali riviste italiane cessarono la pubblicazione e il numero dei medici omeopatici si andò riducendo progressivamente fino agli anni ‘30.

Ad eccezione di A. Nebel 45(che tra l’altro nel 1938 mise a punto il nosode “Influenzinum” 46), solo agli omeopati spagnoli (in Europa) ed americani fu concesso di lasciarci testimonianza del lavoro svolto. Pertanto ci atterremo principalmente ai loro dati, in quanto sia le statistiche che le terapie omeopatiche non differiscono sostanzialmente da quelle di altre nazioni.

L’ESPERIENZA SPAGNOLA

La Revista de Homeopatia Practica nel numero del novembre 1918 è il punto di riferimento 47. Il lavoro è del dott.A. Olivè, condirettore insieme ad A. Vinyales. I casi iniziano a marzo, prima in forma lieve, quindi in forma sempre più epidemica e grave. A parte una generica profilassi, come evitare gli assembramenti (un’ordinanza cittadina chiede che i mezzi di trasporto pubblici viaggino con le porte aperte per facilitare l’areazione) e le normali forme igieniche, viene consigliata una profilassi delle vie respiratorie e orali (perborato di sodio, acqua ossigenata diluita), cercando

di evitare repentini cambi di temperatura che potrebbero interessare le mucose delle vie respiratorie. Si nota subito come il medico omeopata si interessi all’uomo inserito nel suo ambiente, seguendo i principi che Hahnemann aveva indicato ne “L’amico della salute”. Fondamentale è lo studio delle variabili individuali.

rimedi più frequentemente prescritti sono:

  • Aconitum, Veratrum Vir.,Belladonna, Eupatorium, Bryonia, Ipeca, Antimonium Tart., Phosphorus. spesso associati, nel periodo della convalescenza, a:
  • China, Nux Vomica, Arsenicum album. Nelle emottisi e nelle ematemesi vengono prescritti:
  • Mill., Trillium pend, Ham. Nella Revista, un lavoro del dott. J. Girò Savall 48 illustra l’efficacia dell’omeopatia nei vari quadri sintomatologici dell’epidemia e nelle sue complicanze (polmonite, emorragie, interessamento dell’apparato digerente).

SINTOMATOLOGIA GENERALE: insonnia, inappetenza, astenia generalizzata, la comparsa improvvisa della sintomatologia, la lunga persistenza, le recidive, l’imprevedibilità delle manifestazioni. L’astenia, nei casi benigni, si accompagna al desiderio di immobilità, ad una sensazione di affaticamento senza causa apparente, rifiuto del movimento. Nei casi gravi a questi sintomi si associano precordialgie, tachicardia, algor e morte rapida. Localizzazioni più rare: endocarditi, metriti, nefriti, meningiti, otiti perforanti, appendiciti. Gli attacchi sono improvvisi: da uno stato di benessere si può passare ad un quadro caratterizzato da violenta cefalea con artralgie, brividi squassanti, allucinazioni fino alla sincope. La complicanza più grave è certamente quella dell’apparato respiratorio (polmonite, broncopolmonite, pleurite).

Seguono l’apparato neurologico (meningite, apoplessia, afasia, epilessia jacksoniana) e le forme reumatiche. Molto frequente è la febbre, di tipo continuo-intermittente. L’apparato digerente è interessato con gastroenteriti, dissenteria, colera, dissenteria mucosa, forme tifoidee” (Revista de Hom. ag 3 op. cit). Molte sintomatologie sono sovrapponibili e comuni ma altre variano per decorso associandosi diversamente tra loro. Si possono classificare tre forme epidemiche: benigna, media, grave.

BENIGNA: ricorda i sintomi della bronchite, accompagnata da astenia, artromialgie, cefalea, brividi. Si associa mucosità nasale, faringea e oculare. Spesso il muco laringo-bronchiale si associa ad afasia e accessi di tosse dolorosi con l’espettorato che si fa progressivamente più denso. All’auscultazione: rumori bronchiali. L’ipertermia tende a diminuire durante il giorno. Spesso si presenta con la sola sintomatologia di mialgie diffuse. Le forme gastrointestinali si manifestano con nausea e vomito gastrico o biliare e diarrea. Questa forma ha una durata di 1 o 2 settimane fino alla comparsa di sudorazione, diarrea, epistassi ed herpes labialis che indicano la risoluzione.

GRAVE: i sintomi sono più intensi, spesso accompagnati da delirio e sincope. I sintomi sono in genere neurologici, respiratori e digestivi.

PROGNOSI: i casi trattati nell’ Hospital Homeopathico Nino Dias si possono classificare come benigni. Venivano trattati in genere oltre 150 casi al giorno, tra cui 46 broncopolmoniti con 1 solo decesso. E’ probabile che l’uso sconsiderato di ogni tipo di terapia sintomatologica abbia facilitato la morbilità, riducendo il potere di difesa individuale.

Questa la terapia principalmente impiegata: Bryonia, Aconitum ,Eupatorium, Nux Vomica, Phosphorus, Rhus Tox, Veratrum viride, Baptisia, Gelsemium, Chininum sulfuricum, Ipecacuanha, Tartarus emeticus, Arsenicum, Carbo Vegetabilis, Ranunculus, Cantharis, Iodum, Opium, Ignatia, Apium virus, Hyosciamus, Cina, Colocynthis, Mercurius corrosivus, Veratrum album, Colchicum, Chelidonium, Ferrum phosphoricum, Allium cepa, Phosphoricum acidum, Hydrastis, Secale cornutum, Millefolium, Lachesis, Crotalus. Tutte le dosi venivano somministrate in bassa diluizione.

In CONVALESCENZA: Avena sativa, Arsenicum, China, Gelsemium.

PROFILASSI: Rhus Toxicodendron, Bryonia, Eupatorium con l’aggiunta di principi dietetici.

L’ESPERIENZA AMERICANA

Ancora più ricca e significativa fu l’esperienza degli omeopati americani, ampiamente documentata dalle casistiche pubblicate sul “Journal of the American Institute of Homeopathy” (49). Illuminante, in tal senso, resta l’articolo pubblicato dal Dr. A. Dewey (50), che riportò i risultati di almeno 50 omeopati, da diverse parti del Paese, da cui emerge una straordinaria concordanza sia nelle percentuali di guarigione (pari al 90-97%) che nei rimedi utilizzati (praticamente gli stessi impiegati in Spagna ma su quantità di pazienti molto più consistenti). Un altro dato comune, ribadito chiaramente da tutti gli omeopati americani, fu l’osservazione della letalità dell’aspirina, che era il farmaco consigliato dalle autorità sanitarie: le megadosi prescritte, il potente effetto anticoagulante (che all’epoca ancora non si conosceva) ma soprattutto la sua azione “soppressiva” avrebbero avuto una grossa responsabilità nell’exitus fatale, costituito principalmente da gravi pneumopatie in soggetti già defedati dalla malattia.

Secondo il Dr. D. A. Williams di Rhode Island l’aspirina provocò la morte nel 60% dei pazienti che svilupparono polmonite (51). Anche il Dr. Loizeaux, (Des Moines, Iowa), prima di approdare all’Omeopatia, vide morire 2 sue figlie di polmonite, proprio a causa dell’aspirina. Ma durante la pandemia del 1918 usò solo rimedi omeopatici senza alcun caso di polmonite per cui ebbe a dire: La Germania ha ucciso più persone con l’aspirina che con le pallottole. A tal proposito riportiamo i commenti di alcuni colleghi, presenti nell’articolo di Dewey (op.cit.): Aspirina e Sali di chinino erano le uniche armi della Vecchia Scuola, che tuttavia perdeva almeno il 60% delle polmoniti! Il mio indice di mortalità è stato invece del 2,1%: senza aspirina non ho perso neppure un caso di influenza” (Dudley A. Williams, MD, Providence, Rhode Island).

“C’è un farmaco che ha causato più morti della malattia stessa. Tutti lo conoscono: è l’acido acetilsalicilico. La sua storia è stata pubblicata ma a tutt’oggi non se ne conosce l’effetto sedativo (?!). Tuttavia veniva usata fino alla totale prostrazione del paziente, che alla fine sviluppava una grave polmonite” (Frank L. Newton, MD, Somerville, Massachusetts).

“L’aspirina e gli altri prodotti a base di catrame vanno condannati per aver provocato un sacco di morti inutili… in particolare l’azione apparentemente sedativa dell’aspirina è ingannatrice: provoca un indebolimento del cuore, deprime la vitalità, aumenta la mortalità nei casi lievi e prolunga il periodo di convalescenza. Maschera i sintomi e complica enormemente la scelta del rimedio curativo. Dovrebbe essere proibita!” (Guy Beckly Stearns, MD, New York). Il Dr. W. F. Edmundson, di Pittsburgh, Pennsylvania riferisce un aneddoto: un medico del locale ospedale chiese ad un’infermiera se conosceva rimedi più efficaci di quelli in voga perché stava perdendo troppi pazienti. L’infermiera rispose che avrebbe dovuto sospendere l’aspirina e rivolgersi alla farmacia omeopatica. Ma quella è Omeopatia!, ribadì il medico. Si, dottore, rispose l’infermiera Ma i medici omeopati con cui ho lavorato così facendo non hanno perso neppure un paziente!

A Filadelfia il Dr. Dean W. Pearson raccolse 26.795 casi trattati da vari omeopati con una mortalità di 1,05% contro il 30% degli allopati. Sempre a Filadelfia, il Dr. E. F. Sappington riferì che 1.500 pazienti furono trattati presso la Società di Medicina Omeopatica del Distretto di Columbia con soli 15 morti, mentre presso l’Ospedale Nazionale Omeopatico si ottenne il 100% di guarigioni. A New York, anche l’International Homeopathic Association riportò statistiche rilevanti: 17.000 pazienti (con molti casi di polmonite) con una mortalità dello 0,25%. Un altro famoso omeopata, Herbert A. Roberts, inviò un questionario a 30 omeopati nel Connecticut: 6.602 pazienti con soli 55 morti (1%). Egli stesso, imbarcato in quel periodo su una flotta mercantile, trattò 81 pazienti: tutti guariti omeopaticamente e regolarmente sbarcati.

Il Dr. Frank Wieland, di Chicago trattò con successo, grazie a Gelsemium, 8.000 operai di una fabbrica con 1 caso di morte, senza aspirina né vaccini. Il Dr. Mary Senseman (Illinois) trattò 49 soggetti allettati (immobili, congestionati, che non si lamentavano, non volevano né chiedevano nulla) con Bryonia 10M ed altri 23 (con mucosità vischiose da naso e bocca) con Senega 1M-10M. Il Dr. T. McCann (Ohio) trattò oltre 1.000 casi senza alcun decesso con soli 4 rimedi: Gelsemium, Bryonia, Eupatorium, Arsenicum. L’elenco delle casistiche potrebbe continuare a lungo ma per ragioni di brevità ci fermiamo a questo punto, rimandando gli interessati all’articolo citato di Dewey.

CONCLUSIONI

La storia della pandemia influenzale del 1918 ha sollevato più dubbi di quanti ne abbia risolti ed ha creato un vero e proprio spartiacque nella storia della sanità pubblica, accademica e militare. A distanza di un secolo la comunità scientifica continua ad interrogarsi e ad indagare sui motivi di tanta letalità e diffusione, sia nel tempo che nello spazio. L’impreparazione della classe medica e politica dell’epoca, che non disponeva di dati etiopatogenetici certi e di misure terapeutiche valide, mise in luce la mancanza di una strategia adeguata ad affrontare situazioni del genere. Il mondo omeopatico, invece, non solo disponeva di una metodologia diagnostico-terapeutica adatta alla circostanza ma in particolare vantava una grande esperienza storica, avendo già affrontato con successo epidemie di colera, tifo, etc. nel XIX secolo.

grandi omeopati del passato, da Hahnemann (52, 53, 54) a Boericke (55), da Clarke (56) a Grimmer (57), ci hanno lasciato pagine indimenticabili sulla gestione di simili emergenze, in particolare nella ricerca del “genio epidemico”. Non è un caso se, grazie alle loro indicazioni, gli omeopati europei ed americani, pur differenziando a seconda dei casi, si trovarono concordi nella scelta degli stessi rimedi. Rimedi che, in gran parte, ricorrono tuttora in occasione delle epidemie annuali. Grazie alla metodologia hahnemanniana, anche la virulenza di quella pandemia può trovare una spiegazione logica, alla luce del concetto di “terreno” e dell’analisi miasmatica.

Situazioni di forte disagio, come un clima di guerra, rendono una popolazione maggiormente suscettibile all’azione dei microrganismi (Taubenberger et al., op. cit.) che, in tal caso, trovano le condizioni ideali per proliferare ed andare incontro ad eventuali mutazioni genetiche. Mutazioni, peraltro, favorite dall’azione sicotizzante delle terapie (aspirina in primis e vaccinazioni di massa, imposte soprattutto ai militari impegnati nel conflitto) e dalle condizioni di vita in trincea (freddo, malnutrizione, etc.), responsabili dell’effetto tubercolinizzante. È proprio da questa miscela esplosiva che sarebbero scaturite le patologie distruttive (effetto luesinizzante) responsabili della morte di milioni di persone. Anche se dal 1918 la scienza biomedica ha compiuto enormi progressi in ogni settore, è impossibile ignorare i risultati conseguiti allora dall’Omeopatia, che superò brillantemente la sfida sul campo con la pandemia influenzale.

Benché i suoi detrattori tendano, come sempre, ad ignorare o minimizzare quei successi, esiste un’ampia letteratura a comprovare e validare quella esperienza. Un’esperienza che, ci auguriamo, dovrebbe essere conosciuta ed approfondita da ogni omeopata affinchè possa essere divulgata e trasmessa alle generazioni future.

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